Autore: Stagista

LOMBARDI A. – Il potere di controllo del datore di lavoro alla luce della giurisprudenza CEDU. Riflessioni a margine della sentenza Bărbulescu.

Abstract

1. Introduzione. Tra i profili della tutela della privacy che destano maggiore preoccupazione e sono oggetto di interventi da parte delle Autorità nazionali e sovranazionali preposte alla tutela dei dati personali, hanno assunto rilievo quelli connessi con l’attività lavorativa. Lo sviluppo tecnologico e l’impiego massivo dell’elaboratore elettronico per lo svolgimento delle mansioni, infatti, hanno determinato maggiori possibilità di intrusione nella sfera personale dei lavoratori, i quali possono essere facilmente posti sotto controllo dai propri datori di lavoro, attraverso un costante monitoraggio invisibile della loro attività, sia durante che successivamente all’orario di lavoro.

Il monitoraggio da parte del datore di lavoro, attraverso ad esempio la consultazione del server aziendale, consente allo stesso di conoscere quali e quanti messaggi di posta elettronica il lavoratore ha inviato o ricevuto, quali siti della Rete ha visitato e il tempo per cui si è protratto il collegamento. L’invasività del controllo quindi, può non esaurirsi nella verifica dell’adempimento della prestazione lavorativa, ma può interessare momenti di vita privata del lavoratore, rispetto ai quali la tutela deve essere pienamente garantita.
Ed è proprio sul binomio legittimità e limiti al controllo del lavoratore che si incentra la recente pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale con una sentenza dai connotati parzialmente innovativi, ha alimentato il dibattito italiano sul tema, alla luce delle modifiche apportate dal “Jobs Act”, all’art.4 dello Statuto dei Lavoratori.

2. Il fatto e la decisione della Corte EDU.
Il presente approfondimento trae spunto dalla recente sentenza emessa dalla IV° sezione della Corte Europea in data 12 gennaio 2016, nel caso BĂRBULESCU v. ROMANIA (ric. no.61496/08). Il ricorso alla Corte di Strasburgo è stato presentato da un ingegnere, di nazionalità rumena, responsabile delle vendite di una società privata il quale, dopo una serie di controlli effettuati dal datore di lavoro[…]

LEOTTA C.- I limiti all’incriminazione del negazionismo del genocidio degli Armeni

1. Il caso.- Doğu Perinçek è un uomo politico turco, capo del Partito Turco dei Lavoratori, che nel 2005, in occasione di tre distinti eventi pubblici avvenuti in Svizzera, manifesta opinioni negazioniste sul genocidio degli Armeni (Metz Yeghérn). Il primo episodio avviene a Losanna, nel Cantone di Vaud, il 7 maggio 2005, quando Perinçek, in una conferenza stampa, afferma che «the Armenian Genocide is an international lie» orchestrata dalle forze imperialiste degli Stati Uniti e dell’Europa. Il secondo fatto si verifica il 22 luglio 2005 a Opfikon, nel Cantone di Zurigo, in occasione di una commemorazione del Trattato di Losanna del 1923, durante la quale il ricorrente afferma che il problema dei Curdi e degli Armeni non è mai esistito e distribuisce un volantino dal titolo The Great Powers and the Armenian question. Il terzo episodio risale al 18 settembre dello stesso anno: Perinçek a Köniz, nel Cantone di Berna, nuovamente pronuncia frasi negazioniste, riporta presunte fonti sovietiche che escluderebbero la commissione di un genocidio da parte della Turchia e ribadisce che gli Armeni all’inizio del XX secolo fossero alleati delle forze imperialiste nemiche dell’Impero ottomano. Conclude, infine, dicendo che «there was no genocide of the Armenians in 1915. It was a battle between peoples» (cfr. Doğu Perinçek v. Switzerland, parr. 13-16).Perinçek, a causa di tali dichiarazioni, il 9 marzo 2007 è condannato al pagamento di una pena pecuniaria dal giudice di Losanna per il reato di cui all’art. 261-bis, par. 4, cod. pen. svizzero che punisce chi pubblicamente nega, minimalizza in modo grossolano o giustifica un genocidio o un altro crimine contro l’umanità, per ragioni di discriminazione razziale, etnica o religiosa. La condanna è confermata nei successivi gradi di giudizio. Il politico turco ricorre alla Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 10 CEDU (diritto alla libera manifestazione del pensiero); i giudici di Strasburgo (Sezione II), accogliendo il ricorso, il 17 dicembre 2013 dichiarano che la condanna è in contrasto con la disciplina convenzionale di cui all’art. 10 CEDU. […]
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